mercoledì 13 ottobre 2010

Stadiografia






Le date di erezione e/o di apertura degli stadi calcistici italiani

Stadio Comunale (ora "Artemio Franchi") di Firenze, opera di Pier Luigi Nervi; costruito fra il 1930 e il 1932

Stadio Olimpico di Roma, erede dello Stadio dei Cipressi (1937), inaugurato nel 1953

Stadio Flaminio di Roma, opera di Pier Luigi Nervi, inaugurato nel 1959

Stadio San Siro (o "Giuseppe Meazza") di Milano, inaugurato nel 1926

Arena Civica di Milano, opera di Luigi Canonica, inaugurata nel 1807

Stadio delle Alpi di Torino, progettato dallo Studio Hutter; costruito fra il 1988 e il 1990, inaugurato in occcasione dei Mondiali di calcio, è stato abbattuto nel 2009

Stadio Olimpico di Torino (già Stadio Municipale Benito Mussolini e Stadio Comunale), inaugurato nel 1933

Stadio Luigi Ferraris di Genova, inaugurato nel 1911

Stadio San Paolo di Napoli, inaugurato nel 1959

Stadio Renato Dall'Ara di Bologna (già Stadio Littoriale), aperto nel 1926

Stadio San Nicola di Bari, opera di Renzo Piano, costruito fra il 1987 e il 1990

Stadio Cibali (o Angelo Massimino) di Catania, già Stadio Italo Balbo, inaugurato nel 1937

Stadio La Favorita (o "Renzo Barbera") di Palermo, opera di Giovan Battista Santangelo; inaugurato nel 1932

Stadio Marcantonio Bentegodi di Verona, inaugurato nel 1963

Stadio Cino e Lillo Del Duca di Ascoli, progettato da Costantino Rozzi, costruito fra il 1955 e il 1962

Stadio Sant'Elia di Cagliari, ultimato nel 1970

Stadio San Vito di Cosenza, inaugurato nel 1964

venerdì 1 ottobre 2010

Arthur Penn



(link originale dell'immagine: http://www.sottodiciottofilmfestival.it/immagini/ospiti/2007/Arthur_Penn.jpg)



IL RICORDO/ Arthur Penn, il leone di Hollywood tra western e “miracoli”
Leonardo Locatelli venerdì 1 ottobre 2010



«Per decenni i film western hanno arricchito la realtà del West per renderla più interessante. Ma a metà degli anni Cinquanta molti film misero in questione il mito perpetuato da Hollywood. Arthur Penn, ad esempio, presentò Billy the Kid come un giovane delinquente in cerca di una figura paterna. Mettendo un giornalista a seguire l’intera carriera del giovane criminale, Penn suggeriva quanto la storia fosse distorta fin dall’inizio. Paul Newman interpretava Billy the Kid come un antieroe alla ricerca della propria morte. Non uno spietato assassino o un cordiale criminale: Billy era solo “un ribelle senza causa”. La rabbia e la confusione sono dovuti più a un malessere adolescenziale che iniziava a manifestarsi negli anni Cinquanta che alla realtà del vecchio West».



Con queste parole, all’interno del suo Viaggio nel cinema americano (A Personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies, 1995), Martin Scorsese descrive la ventata di assoluta novità portata nel genere cinematografico americano per eccellenza, il western, da Furia selvaggia (Billy the Kid) (The Left-Handed Gun, 1958), l’insolito e prezioso esordio dietro la macchina da presa - ispirato al teledramma The Death of Billy the Kid (1955) di Gore Vidal - di Arthur Penn, il brillante regista teatrale, televisivo e cinematografico statunitense morto lo scorso martedì notte, proprio il giorno dopo il suo ottantottesimo compleanno (era nato infatti il 27 settembre 1922 a Filadelfia da genitori ebrei di origine russa).



Un cineasta per ben tre volte - 1962, 1967 e 1969 - finito nella cinquina dei candidati all’Academy Award per la migliore regia e che solo tre anni e mezzo fa, il 15 febbraio 2007, è stato premiato al Filmfestspiele di Berlino con un Orso d’oro alla carriera (vale a dire una quindicina di pellicole in tutto, per restare alla sola attività cinematografica). Un grande amante della “Nouvelle Vague” di François Truffaut - di cui adorava l’opera prima, I quattrocento colpi (Les 400 coups, 1959), «così simile alla mia infanzia» - e Jean-Luc Godard che ha idealmente aperto la strada ad autori quali Dennis Hopper, Sam Peckinpah, Martin Scorsese, Robert Altman, Steven Spielberg, Terrence Malick, Francis Ford Coppola, Bob Rafelson e Hal Ashby.



Ma non solo: da regista televisivo è stato colui che ha consigliato all’allora candidato democratico alla Casa Bianca John Fitzgerald Kennedy come comportarsi davanti alle telecamere durante il celebre confronto del 1960 con il più quotato candidato repubblicano Richard Milhous Nixon. Inutile ricordare come è andata a finire: ormai è tutto tramandato sui manuali non di cinema ma di storia e di scienze della comunicazione.



Per la sua seconda incursione sul grande schermo - a partire da un teledramma (1957) e da una pièce teatrale (1959) firmati entrambi da William Gibson - si è affidato a una vicenda da lui già diretta sia per la televisione che sulle tavole di Broadway: nel 1962 è stata infatti la volta di Anna dei miracoli (The Miracle Worker), ovvero «la descrizione epica di una battaglia che culmina nella straordinaria scena di 9 minuti tra Annie [Sullivan] e Helen [Keller] intorno al tavolo da pranzo [e] mette con furia l’accento sulla dimensione fisica della battaglia» (Morando Morandini).


Nel 1967 usciva Gangster Story (Bonnie and Clyde), la storia di Bonnie Parker e Clyde Barrow, dove si mostravano per la prima volta gli effetti “speciali” delle pallottole sui corpi delle persone e che terminava con l’uccisione dei due fuorilegge crivellati di colpi durante un’imboscata, il tutto prima in un montaggio serrato e molto frammentato e poi in ralenti. Un film lanciato da uno slogan memorabile («They’re young. They’re in love. And they kill people») apparso quattro anni prima di quello legato all’Alex DeLarge kubrickiano («Being the adventures of a young man whose principal interests are rape, ultra-violence and Beethoven»).



Ecco come ne ha parlato lo stesso Penn: «Il vecchio sistema degli Studios si fondava sull’ipocrisia. C’era una paura costante di essere accusati di infondere nei giovani il fascino per l’illegalità ed è per questo che vennero stabilite norme. Ad esempio, nello stesso fotogramma non si poteva vedere contemporaneamente un colpo di pistola e colui che veniva colpito. Allora era assolutamente necessario un taglio intermedio. Quindi ho pensato che se decidevamo di farlo vedere, l’avremmo fatto come si doveva. Avremmo dovuto mostrare cosa succede quando qualcuno viene colpito. Il colpire qualcuno non rappresenta un fatto asettico: c’è un enorme quantità di sangue e di orrore, quando succede. E ci trovavamo in piena guerra del Vietnam. Quello che si vedeva in televisione era forse addirittura più carico di sangue di ciò che appariva nei film».



Nel 1970, a chiusura di un favoloso e irripetibile decennio creativo, ecco invece Piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) - tratto dal romanzo di Thomas Berger, sceneggiato da Calder Willingham e interpretato da Dustin Hoffman - che, insieme a Soldato blu (Soldier Blue, 1970, Ralph Nelson), Un uomo chiamato cavallo (A Man Called Horse, 1970, Elliot Silverstein) e Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson, 1972, Sydney Pollack), ha inaugurato la stagione del western filo-indiano, un tentativo in celluloide di raccontare il lato oscuro del mito della Frontiera, i cui echi arriveranno fino al celebrato e pluripremiato Balla coi lupi (Dances with Wolves, 1990, Kevin Costner).



Pur menzionando queste sole quattro opere, appare chiaro come chi ha smesso di ruggire fosse uno dei veri “leoni” di Hollywood.


(da http://www.ilsussidiario.net/News/Cinema-Televisione-e-Media/2010/10/1/IL-RICORDO-Arthur-Penn-il-leone-di-Hollywood-tra-western-e-miracoli-/116476/)

Tony Curtis



(link originale dell'immagine: http://blog.veryfinebooks.com/wp-content/uploads/2009/01/curtis232.jpg)



di Alberto Crespi

Anni fa avemmo l’onore di assistere, al festival di Berlino, ad una conferenza di Jack Lemmon. Attenzione: non conferenza stampa, ma conferenza tout court. Lemmon era un genio, un uomo coltissimo, ed ascoltarlo parlare di recitazione era come laurearsi all’Actor’s Studio. Parlando di A qualcuno piace caldo, Lemmon disse su Marilyn Monroe una frase che non possiamo non scrivere in inglese: «She drove Billy crazy and I think she drove Tony crazy, but in a different way». Traduzione: faceva impazzire Billy (Wilder) e credo facesse impazzire anche Tony, ma in un senso diverso. Il Tony di cui Lemmon parlava era naturalmente Tony Curtis, suo compare di sventura in quel film meraviglioso: sono i musicisti jazz che assistono a una strage di gangster e, per sfuggire alla morte, si travestono da donne e si rifugiano in un’orchestra femminile nella quale Marilyn canta e suona l’ukulele. Curtis aveva avuto una storia con Marilyn molti anni prima, quando lei si chiamava ancora Norma Jean Baker ed era una delle tante stelline giunte a Hollywood in cerca di fortuna. Sul set di A qualcuno piace caldo, il vecchio amore rinacque, anche se ormai Marilyn era psicologicamente molto instabile – infatti faceva diventar «crazy» anche Wilder – e le cose non potevano funzionare. Anche Tony, all’inizio degli anni ’50, era una stellina. Si arrabattava in piccoli ruoli (ce n’è uno brevissimo in Winchester 73, un bellissimo western di Anthony Mann) ma aveva almeno due carte da giocarsi: era bello in un modo esagerato, ed era ebreo. Il suo vero nome – pochissimi lo ricordano – era Bernhard Schwartz. L’etnia ebraica non garantiva l’ingresso a Hollywood, ma un pochino aiutava, e soprattutto procurava amicizie importanti. Il primo titolo ufficiale nella filmografia di Curtis, risalente al 1949, è How to Smuggle a Hernia Across the Border , «come contrabbandare un’ernia attraverso il confine».

Non meravigliatevi se non l’avete mai visto: era un film “casalingo”, pare molto surrealista, girato dal giovane ma già famoso Jerry Lewis. Tony e Jerry erano amici e lo rimasero sempre. Tra l’altro fu a casa di Jerry che Tony conobbe la sua prima moglie, Janet Leigh, la bionda di Psycho. Per la cronaca la loro splendida figlia è l’attrice Jamie Lee Curtis.

Curtis e le donne, Curtis e la pittura, Curtis e i cavalli. Sempre qualche anno fa, stavolta a Cannes, Tony Curtis venne a presentare durante il festival una sua mostra di pittura. Era diventata la sua grande passione in quel di Las Vegas, dove si era ritirato, e dove è morto. Non ricordiamo quadri bellissimi, ma la nostra incompetenza sull’arte moderna è totale: diciamo che erano coloratissimi, con tonalità molto violente, e una spessa crosta di pittura a coprire le tele. Quasi «action painting», con spazzolate alla Van Gogh. Ai cavalli, da molti anni, aveva aperto le porte del suo ranch: accoglieva tutti i purosangue da corsa in pensione, che gli ippodromi non volevano più. Per molti motivi Tony Curtis ispira solo ricordi e pensieri simpatici.

A qualcuno piace caldo rimane di gran lunga il suo film più famoso, e non sarà casuale se fu la prima scelta per il ruolo: «Quando Billy mi chiamò mi disse che avrei dovuto recitare vestito da donna e io risposi che non c’era alcun problema. Aggiunse che nel cast, con me, ci sarebbero stati Frank Sinatra e Mitzi Gaynor. Una settimana dopo mi telefonò per dirmi che aveva cambiato idea. Pensavo volesse licenziarmi, invece erano gli altri due terzi del cast ad essere cambiati: voleva Jack Lemmon, un nuovo attore che gli sembrava fantastico, e la produzione stava tentando di assicurarsi Marilyn Monroe...».

SPAVALDA IRONIA
Sono molti altri, i film, nella carriera di Curtis, ma siamo sicuri che subito dopo A qualcuno piace caldo vengono, nell’ideale classifica di molti spettatori, i telefilm della serie Attenti a quei due. Caratterizzata dalla sigla di John Barry e dal raffinato contrasto tra l’americano Curtis e l’inglesissimo Roger Moore, Attenti a quei due (in originale The Persuaders) era in effetti tv di altissimo livello, in cui le trame thriller si sposavano perfettamente con la spavalda ironia dei due attori. Non a caso Moore ha ricordato ieri il collega per il grande divertimento che accompagnò le riprese di quel telefilm davvero vintage.

Il Curtis comico può essere goduto anche in commedie come Boeing Boeing, o il delizioso Operazione sottoveste di Blake Edwards – dove l’attore può tornare alle uniformi della U.S. Navy che avevano contraddistinto la sua breve carriera militare. Ma come tutti i commedianti, Curtis poteva essere uno splendido attore drammatico. Rivedetelo, se potete, nello Strangolatore di Boston di Richard Fleischer, un thriller del ’68 fra i più crudeli e inquietanti mai usciti da Hollywood. Ma anche, naturalmente, in Spartacus di Kubrick, possibilmente nei dvd con la famosa sequenza gay censurata in cui Laurence Olivier, nei panni di Crasso, tenta di sedurre Curtis che interpreta il giovane schiavo Antonino. Quando la scena venne reintegrata, occorreva ridoppiarla, e Olivier era scomparso. Lo fece Anthony Hopkins, imitando alla perfezione la voce del grande shakespeariano: e da allora Curtis ha sempre salutato il collega dicendogli «Ciao, sono Antonino». In Italia Curtis ha avuto molte voci, ma la più perfetta e indimenticabile è quella di Pino Locchi, che lo doppia in A qualcuno piace caldo e in Attenti a quei due.

Rivedere quei film significa bearsi di un’arte e di una professionalità difficilmente riscontrabili nel cinema di oggi. Con due scomparse come Arthur Penn e Tony Curtis, nel giro di 48 ore, continua – ahinoi – a chiudersi un’epoca.
01 ottobre 2010

(da http://www.unita.it/news/culture/104141/lultima_risata_di_tony_curtis)