martedì 14 settembre 2010

Pietro Calabrese

Addio a Pietro Calabrese,
una vita per il giornalismo




(immagine proveniente dalla pagina http://www.rainews24.it/ran24/immagini/calabrese_pietro.jpg)



di Roberto Napoletano
«Sai, il Messaggero mi ha fatto uomo e direttore, mi sembra una buona regola di civiltà che si chieda di tornare a scrivere a chi ha fatto un po’ di giri». Venerdì nove aprile con Pietro Calabrese, seduti intorno a un tavolino in una sala da tè, ai piedi della scalinata di Trinità dei Monti, abbiamo consumato due tisane e conversato un’ora e mezzo. Abbiamo parlato di tutto. Di amici comuni che non ci sono più come Napoleone Colajanni, di Totti, di Roma, del primo ministro francese Fillon che impazzava (ahinoi!) sui giornali italiani, della politica, della sua malattia e di Gino lo pseudonimo che aveva scelto per raccontarla.

La frase che mi è rimasta più impressa, però, è questa: «Sai, il Messaggero mi ha fatto uomo e direttore...» Pietro parlava con gli occhi, due occhi azzurri che sprigionavano vita. Lo stesso lampo si accendeva ogni volta che mi chiedeva di via del Tritone, della sua redazione, del suo giornale, della «sua casa». Praticamente ogni cinque minuti, come era giusto e anche naturale, perché il cuore lo portava sempre lì, in una miscela specialissima fatta di ricordi personali, curiosità e grandi emozioni professionali, la magia mai smarrita del giornale di Roma, il cordone ombelicale che lo lega alla città e ai lettori.

Gli avevo chiesto di tornare a scrivere per il suo giornale, sapevo di interpretare anche un desiderio dell’editore e dei lettori, e lui era entusiasta. Poi il saluto. «Dammi qualche giorno, il primo lo voglio curare bene». «Fai presto, so che lo hai già in testa». Nel pomeriggio l’articolo era pronto. Iniziava così: «Mi piacerebbe che il direttore di questo giornale mandasse i suoi più gagliardi cronisti a Corviale o a Tor Bella Monaca con una sola domanda nel taccuino: chi è Fillon e perché si parla tanto di lui? E poi leggere le risposte degli intervistati. La maggior parte dei quali guarderebbe i giornalisti del Messaggero come alieni, e qualcuno tra i più scafati azzarderebbe: non è il mediano del Lione che sta trattando la Roma?».

Questo era Pietro, diretto, leggero e profondo allo stesso tempo. Gli dissi: «Il tuo ritorno al Messaggero lo annuncio con un distico. In coda, metterei bentornato a casa...» Silenzio, secondi lunghissimi, poi una sola parola: grazie.

Venerdì dieci settembre, ore venti, clinica Paideia, terzo piano, stanza 312. Sono lì perché mi hanno detto che le condizioni di Pietro sono peggiorate. Sulla porta c’è un cartello: il paziente riposa, non disturbare. Mi fermo. Nel corridoio c’è Costanza, la figlia, mi viene incontro: «Incredibile, ha ripreso conoscenza qualche attimo fa, si è occupato di me e mamma, e poi ha subito detto: mi raccomando, domenica sul Messaggero deve uscire Settecolli». Costanza si apparta con la madre Barbara, parlano tra di loro e con i medici, mi fanno un cenno. Entro nella stanza per l’ultimo saluto, intorno a lui ci sono Stefano Barigelli e Rita Pinci, il dolore stampato sul volto. La penombra me lo rende sofferente, domato, ma ancora lui. Il giorno della sua morte sul Messaggero c’è la sua rubrica. L’ultimo desiderio, il segno di un destino. Ciao, Pietro.

(articolo tratto da http://www.ilmessaggero.it/articolo.php?id=118662&sez=HOME_INITALIA)

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